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Vino e politica

Vino e politica

Le grandi decisioni spesso vengono prese seduti intorno ad una tavola imbandita

Autore: Gusto landia/martedì 15 ottobre 2013/Categorie: Info e News

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La vitivinicoltura è forse, tra i settori produttivi, quello con una legislazione - ed una burocrazia conseguente - tra le più pesanti; inoltre è interessato dalla moda in atto di molti politici che decidono di diventare produttori di vino, ma soprattutto e fin dall'antichità il "vino" prende forma in tutte le sue dimensioni proprio nella "polis", nella "città", e quindi nei comportamenti socio-politici della cittadinanza

Vino e politica, un rapporto poco analizzato: si parla di vino e territorio, vino e cibo, vino e salute, ma l'accostamento con la politica non è quasi mai praticato, Eppure se ne è parlato, l'8 settembre scorso, nell'ambito del Festival della Politica (Venezia-Mestre) nel corso di una iniziativa, curata dalla Fondazione Pellicani e dall'Associazione Nazionale Città del Vino, che aveva proprio questo tiolo: "Vino e Politica". A guidare la conversazione il filosofo Massimo Donà, assieme ai partecipanti Luca Bisol, produttore; il Presidente del Consorzio Prosecco Valdobbiadene-Conegliano Superiore Docg Innocente Nardi, e Paolo Benvenuti, direttore di Città del Vino.
Qualcuno si domanderà cosa c'entri il vino con la politica: in realtà moltissimo. Non solo perchè il settore vitivinicolo è quello forse tra i settori produttivi regolato da una legislazione, ed una burocrazia conseguente, tra le più pesanti e frutto di scelte politiche, non c'è dubbio; inoltre per la moda in atto da parte di molti politici di diventare produttori di vino (uno tra gli ultimi è, ad esempio, Massimo D'Alema), ma soprattutto e fin dall'antichità il "vino" prende forma in tutte le sue dimensioni proprio nella "polis", nella "città", e quindi nei comportamenti socio-politici della cittadinanza.
Da questa conversazione, Massimo Donà ne ha tratto l'ispirazione per ritornare sull'argomento con una riflessione più accurata e, come sempre, intelligente e ricca di spunti.
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Se il concetto di ‘politica’ rinvia a un universo semantico che possiamo ricondurre alla questione della convivenza, e se la polis – concepita come forma della convivenza ordinata e fondata su una ‘legge’ uguale per tutti – è un prodotto della modernità, è anche vero che sin dalle sue origini il modo d’essere d’ogni società, e dunque di ogni polis, fa capo ad un’idea di “limite” che sembra destinata a costituirsi come la vera e propria conditio sine qua non di qualsivoglia ‘relazione civile’.
Anche perché, se non si dà un ‘limite’ riconosciuto da tutti come inviolabile, allora tutto diventa possibile, e a dominare non potrà che essere il caos.
Certo, il limite inviolabile sarebbe stato determinato dalle società e dalle epoche storiche in forme sempre diverse, ma una cosa è certa: ogni volta si sarebbe comunque ripresentata l’esigenza di definire, per quanto in modo nuovo e diverso rispetto al passato, quello che avrebbe dovuto comunque costituirsi come “limite inviolabile” – ossia, come un limite riconosciuto da tutti i membri della comunità appunto come “non-violabile”.

Che lo stare insieme da parte degli umani necessiti di ‘regole’ lo sappiamo tutti. Ma non sempre ricordiamo che imprescindibile, affinché le regole possano essere definite e riconosciute come tali, è che si riconosca un qualche limite come “inviolabile”.
Infatti, solo in quanto imponentesi come tale, il limite consente una relazione sociale non fondata sul continuo sospetto e sul continuo timore che l’altro possa volerci fare fuori.
La regola, comunque, può offrirsi come inviolabile, solo se custodita da quello che potremmo definire il “guardiano” della comunità (vale a dire: i giudici, la polizia, le forze dell’ordine, l’esercito….). Altrimenti ognuno potrebbe, in ogni momento, ritenere opportuno violare la legge pro domo sua. Perché questo non accada, dunque, deve esservi qualcuno che controlli l’efficacia e il rispetto del suo (della legge) imperium.
D’altro canto, questo irrinunciabile riferimento ad una legge e dunque ad un limite inviolabile, non riguarda solo i rapporti tra gli umani; anche in natura, infatti –  ed è difficile comprenderne le ragioni –, se i fenomeni non vivessero nel rispetto di alcune leggi fondamentali, si produrrebbe il caos; e nessuna regolarità sarebbe riconoscibile né tanto meno affidabile. I cicli vitali del mondo vegetale e del mondo animale verrebbero messi a soqquadro e il mondo non sarebbe più quello che continuiamo fortunatamente a riconoscere e che consente anche a noi di progettare in qualche modo la nostra esistenza.

Certo, le cose si distinguono le une dalle altre; ma anche tutti i fenomeni si distinguono, pur assecondando alcune leggi uguali per tutti. Ecco dunque: è proprio in relazione a ciò che ci tutti ci identifica, che è possibile vivere la distinzione come ‘amica’; senza continuare a vedere nell’altro da noi un potenziale e potenzialmente mortale nemico. Insomma, quel che ci unifica è quello stesso che ci dovrebbe mettere al riparo dal rischio originariamente costituito dall’alterità dell’altro.
È dunque proprio ciò in relazione a cui non ci distinguiamo, ma ci ritroviamo identici gli uni agli altri, a rendere possibile una sicurezza come quella di fatto garantita dalla “legge”. Ossia, a garantire la salvaguardia delle nostre differenze.
“Politica” indica dunque una dimensione nel cui orizzonte identità e differenza non devono sentirsi nemiche l’una dell’altra; una dimensione all’interno della quale, cioè, solo l’identità della legge (in relazione alla quale siamo appunto tutti uguali) sembra poter garantire la difesa dell’identità con sé da parte di ogni esistente (e dunque della sua differenza rispetto ad ogni altro). E il suo non dover più temere l’altro come possibile occupante o invasore, in quanto riconosciuto piuttosto come “amico” la cui esistenza potrebbe essere finanche d’aiuto alla conservazione della mia.

Perciò la dimensione del “politico” è quella in relazione a cui l’identico ha il compito di erigersi come una sorta di ‘muro’ difensivo vocato al mantenimento di quel che identico non-è.  Senza ridursi a qualcosa di semplicemente diverso dai differenti… costituendosi cioè come un ennesimo “differente”, ancora una volta potenzialmente nemico dei distinti che ad esso si fossero in qualche modo affidati.
Così, d’altro canto, viene spesso vissuto il corpo dei ‘guardiani’ della legge, quando si lascia risolvere in un semplice ‘distinto’ fagocitato dalla legge della guerra di tutti contro tutti.
Insomma, il problema della politica, potremmo anche dire, sia pur in estrema sintesi, è il problema del difficilissimo equilibrio tra “identità” e “differenza”.

Il problema di un equilibrio che mentre alla natura sembra venire spontaneo trovare… senza che nessuno debba artificialmente intervenire a salvaguardare le sue leggi, agli umani risulta alquanto difficile custodire e preservare davvero.
Non a caso gli umani devono imporre la legge con la forza dell’autorità e con il potere sovrano; artifici costruiti ad hoc per rendere il più possibile saldo l’ordine sociale. Ma sempre minati da possibili moti di ribellione fondati sul riconoscimento dell’ordine di volta in volta costituito come espressione di una pre-potenza decisamente insopportabile.
La natura, dicevamo, sembra invece capace di darsi il proprio ordine… un ordine che sembra quasi sorgere spontaneamente dal modo stesso in cui la vita delle diverse forme organiche viene a configurarsi nel complesso intreccio di relazioni che disegnano l’ordine dell’esistere.
Eppure, anche nei confronti della natura, gli umani hanno ritenuto spesso di dover intervenire; costruendo ordini artificiali, volti a rendere sempre più perfetto quel che la natura sarebbe comunque in grado di fare già da sé.
Un tipico esempio di questo intervento è quello che da secoli l’umanità va perfezionando in relazione ad una pratica che va sotto il nome di viticoltura. Il cui prodotto – il vino – sembra essersi riuscito a costituire come perfetta metafora delle potenzialità inscritte in questa comunque problematica collaborazione tra l’essere umano e la natura.

L’essere umano, dicevamo, vuole perfezionare l’ordine naturale. Ma come? E soprattutto perché? E in che senso?
Anche perché, ci si potrebbe sempre chiedere: ha l’ordine naturale davvero bisogno di essere perfezionato?
No, evidentemente; ché dire natura significa chiamare in causa l’orizzonte intrascendibile che tutto abbraccia e che a nulla sembra poter essere realisticamente paragonato. Che non ha dunque da essere migliore. D’altro canto, migliore rispetto a cosa? E in relazione a chi?
Tutto è infatti espressione della natura – sempre che quest’ultima venga concepita come apertura trascendentale rispetto a cui nulla può dirsi esterno.
Il perfezionamento è dunque ciò che possiamo voler realizzare solo in rapporto “a noi”.
Siamo noi, cioè, che sentiamo e riteniamo di poter vivere meglio di come di fatto ci troviamo a vivere. Di poter avere prodotti migliori – che saranno tali, comunque, sempre e solamente “per noi”.
Perché questa è la nostra natura; come sapeva bene anche Leopardi. Quella di non poterci mai sentire a casa, in nessuna situazione. Di poter sempre desiderare altro; di non essere mai soddisfatti di quel che abbiamo e siamo.

D’altronde, così ci ha fatti la natura medesima; facendoci  “naturalmente” innaturali – radicalmente diversi, cioè, da tutti gli altri esseri animati. Sempre e comunque appagati dal proprio “stato”. Vocati a riprodurlo senza ritrovarsi mai agitati da alcun anelito desiderante.
Perciò da sempre interveniamo sulla natura; o meglio sul modo d’essere delle cose – sulla loro datità.
Ma… guai a dimenticare che siamo anche noi parti ed espressioni della natura intesa appunto come orizzonte intrascendibile. Per cui il nostro incessante perfezionamento deve sempre ricordare di essere comunque espressione di una naturalità di cui non siamo certo noi il principio; ma che si esprime anche in noi potendo sempre e comunque fare benissimo a meno di noi (anche questo, Leopardi l’aveva già capito alla perfezione).
Perciò, se vogliamo che il nostro perfezionamento non costringa la natura a farci fuori senza alcun problema (ciò che potrebbe accadere ovunque si mettessero pericolosamente a rischio gli equilibri cosmici di cui noi siamo appunto solo un minuscolo e assai poco significativo ingranaggio), dobbiamo cercare di conoscerla, la natura. Di capire cioè quali siano leggi che ci consentono di vivere in armonia con essa, e non venire dalla medesima fatti fuori, senza alcun problema.

Questo, insomma, dobbiamo fare… imparare a conoscere il “limite invalicabile” che rende possibile una felice convivenza tra noi e la natura; come quella cercata e prodotta dal fare politico di cui, anche, abbiamo sempre avuto e sempre avremo bisogno. In modo tale da non finire per rendere, anche la natura, necessariamente nemica delle nostre esistenze individuali.
Perciò, anche gli interventi con cui trasformiamo la natura, piantando le viti e intervenendo sul paesaggio, quelli cioè che poniamo in atto per la produzione del vino, reclamano una qualche forma di competenza, o quanto meno… di saggezza politica. Costringendoci ad aver cura per la definizione e il riconoscimento di un limite invalicabile che dovremmo imparare non solo a riconoscere, ma anche a rispettare.
Sì, perché anche la natura, come gli altri individui con cui ci relazioniamo nell’orizzonte della polis, va rispettata come l’altro senza il quale non potremmo neppure essere quello che siamo. Certo, essa può sempre esserci nemica – come ogni altra persona diversa da noi. E potrebbe prevaricarci, finanche togliendoci di mezzo – come fa con la massima indifferenza con l’Islandese della famosa operetta morale leopardiana.
D’altro canto, con la natura, non possiamo certo stringere un patto; firmare un accordo. Stabilire una legge condivisa reciprocamente. Perché la natura non dialoga con noi; ma noi possiamo, anzi dobbiamo dialogare con essa. Perciò dobbiamo educarci al riconoscimento e al rispetto di quel limite invalicabile che, solo, può educarci ad aver cura e a coltivare un autentico rispetto della sua (della natura) alterità, della sua autonomia.

Perciò la legge – l’unica possibile – non è in questo caso né questa né quella… ma quella che ci si impone a partire dalla semplice necessità di rispettare un accordo che, pur non essendo raggiunto nel rispetto di contrapposte volontà (come per una sorta di libera mediazione), presuppone almeno il rispetto delle rispettive autonomie. Mai, cioè, dimenticare che la natura con cui abbiamo sempre e comunque a che fare dispone di sue regole, che funzionano e legiferano in modo del tutto indipendente da noi – ossia dalle nostre esigenze. Regole che non possono essere certamente modificate, ma solo ‘educate’ a rendere il più efficace e arricchente possibile il nostro sempre auspicabile contributo.
Anche in rapporto alla natura, dunque, dovremmo renderci capaci di aver cura per la sua autonomia; almeno, sulla base del riconoscimento dell’impossibilità, per essa, di conformarsi in toto alle nostre esigenze. Guai, dunque, a voler modificare… e magari rafforzare in modo esclusivo la “nostra”, di autonomia! A spese di quella della natura, per l’appunto.
Ecco perché non ha senso alcuno presentarsi “armati” di contro ad una temuta hybris della natura.
Si tratta piuttosto di riuscire a individuare quel limite superando il quale rischieremmo di mettere a repentaglio il nostro stesso destino. Questo, dovrebbe impegnarsi a fare ogni essere umano in quanto sufficientemente consapevole di doversi rapportare alla “natura”…  iuxta propria principia.

D’altro canto, ogni buon produttore di vino lo sa bene; sa bene cioè che il prodotto del suo impegno e della sua sapienza non potrà mai corrispondere, come per una causalità di tipo meccanico, alla qualità e all’intensità di questi ultimi.
Sa bene, cioè, che, quanto maggiore sarà l’impegno di ognuno (quanto più raffinata, cioè, riesca a dimostrarsi la sua sapienza intorno al “mistero” rappresentata dalla natura), tanto più risulterà evidente che la qualità del risultato (reso possibile appunto dalla combinata azione di techne e physis) non può mai dipendere “solo” dal nostro comunque misero impegno.
Ogni buon produttore di vino lo sa fin troppo bene, che ogni anno la bevanda cara a Dioniso sarà diversa, per quanto i macchinari e le botti, così come il suo bagaglio conoscitivo, possano anche essere rimasti gli stessi. Per quanto la tecnologia possa anche non essere in alcun modo cambiata.

Insomma, il produttore e le tecnologie avanzate da lui utilizzate (a tutti i livelli…), non potranno mai essere riconosciute come uniche ragioni dell’eventuale bontà del prodotto. Perché la natura ci avrà comunque messo del suo; e in forma del tutto autonoma, nonché libera.
Il risultato, quindi, dipenderà da quella giusta combinazione di naturalità e artificialità, di progettualità e casualità… che sarà resa possibile solo dalla nostra consapevole disponibilità a salvaguardare l’autonomia della natura; stante che, anche per quest’ultima, si tratta di riuscire a formare, con il produttore, una vera e propria polis. Una “relazione” tra distinti, cioè, in rapporto ai quali l’elemento comune riesca ad esaltare e valorizzare al massimo l’autonomia, ovvero il reciproco e irriducibile loro stesso distinguersi.
Questo, ciò dovrebbe riuscire a fare anche ogni comunità umana; impegnandosi per far vivere la legge (che tutti uni-fica) non tanto come costrizione volta a limitare l’autonomia di ognuno, quanto piuttosto come condizione per una piena espressione della libertà e dell’autonomia delle sue componenti individuali.
Dovrebbe essere chiaro, dunque, il significato originariamente politico che la produzione del vino è autorizzata a rivendicare, in quanto paradigma esemplare soprattutto in rapporto a quei difficilissimi equilibri tra identità e differenza che ogni struttura politica o sociale chiama necessariamente in causa.
Insomma, ciò che spesso i politici dimenticano, il produttore di vino non può certo dimenticarlo; ché ne patirebbe i risultati giorno dopo giorno sulla propria pelle. Avendo egli costantemente a che fare con le tragiche conseguenze dell’eventuale dimenticanza della complessità di un rapporto, sempre anche ‘politico’, con la natura intesa come dimensione che reclama innanzitutto rispetto e autentica disposizione collaborativa.
Perché il produttore di vino sa perfettamente che il bene suo dipende direttamente dal bene della natura, e che la propria techne deve non tanto imporsi prepotentemente sulla natura, quando piuttosto cercare di impostare con essa un dialogo indipendentemente dal quale il male di ognuno coinciderebbe con il male di tutti.
Perciò nessun suo intervento dovrà risultare invasivo e ciecamente votato all’intensificazione quantitativa della produzione; la natura in quanto territorio reagirebbe ribellandosi a tale hybris. Perciò la sua competenza e la tecnologia a sua disposizione dovranno sapersi combinare con una capacità di ascolto attenta a riconoscere ciò cui la natura stessa non potrà mai rinunciare, senza rinunciare per ciò stesso alla propria autonomia. Senza ridursi cioè a pura ‘oggettualità’, totalmente asservita alle esigenze di un soggetto astratto e dimentico della sua stessa verità.

D’altronde, questa complessità e questi fragilissimi equilibri vengono fedelmente restituiti anche là dove questa dialettica trova la sua soluzione naturale: ossia, sulla tavola imbandita. Ché, anche la bottiglia che compendierà un pranzo o una cena – da intendersi a loro volta come espressioni di una forma comunitaria “essenziale” e “paradigmatica” – diventerà occasione per una ennesima messa alla prova di quei difficilissimi equilibri. E potrà aiutarci od ostacolarci nel tentativo di porci in relazione con i nostri commensali, sì da farci o meno riuscire a rispettare il confine che, solo, sembra poter garantire la piena estrinsecazione di una libertà che sia ‘nello stesso tempo’ di tutti e di ognuno.
Lo sappiamo bene, infatti, che la qualità di un vino si misura sempre anche dal modo in cui riesce a liberarci e a renderci più sinceri e veri nel rapporto con i commensali, senza impedirci di riconoscere comunque “il limite” superando il quale rischieremmo di trasformare questa libertà in pura prevaricazione e delirio sconsiderato.

Ancora una volta, dunque, la questione del limite invalicabile: come negare, infatti, che la tavola, intorno a cui si forma sempre e comunque “una comunità”, riassuma in uno spazio comunque limitato tutte le dinamiche e le difficilissime implicazioni teoretiche chiamate in causa da qualsivoglia sperimentazione politica?
Perciò le grandi decisioni vengono spesso prese, anche a livello di politica mondiale, attorno a una tavola imbandita.
E se provassimo a sospettare che anche il vino possa svolgere un qualche ruolo (che nessuno si è peraltro mai sognato di attribuirgli) nel determinare la qualità delle decisioni politiche che verranno prese sotto l’influsso di un Brunello di Montalcino piuttosto che di uno Scoppiettino dei Colli friulani?

fonte terredelvino

Autore originale dell'articolo:
Massimo Donà

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